Ci sono artisti che ti cambiano il modo di vedere la chitarra. Non solo il modo di suonarla, ma proprio il modo di pensarla, di ascoltarla, di percepire ogni dettaglio della catena del suono. Per me, uno di quei nomi è sempre stato Eric Johnson. Ho passato anni a studiare i suoi dischi, le sue interviste, i suoi pedalboard rig super complicati e allo stesso tempo incredibilmente poetici. E più andavo a fondo, più mi rendevo conto che Johnson non è solo un chitarrista: è un alchimista. Uno che cerca la nota “giusta”, come lui la chiama e la cerca con una dedizione che sfiora la follia, ma una follia bellissima, quella che rende grande un musicista. In questo nuovo episodio di Guitar Icons, io e Paul Audia vi portiamo dentro la carriera e il suono di Eric Johnson.
Seven Worlds (1978–1986): l’album fantasma che doveva cambiare tutto
Quando si parla di Eric Johnson, molti iniziano il racconto da Tones,m a il punto di partenza reale, anche se spesso dimenticato, è Seven Worlds.
Registrato alla fine degli anni ’70, pubblicato ufficialmente solo molti anni dopo, questo disco è una sorta di capsula temporale: un Eric giovane, pieno di idee, già tecnicamente impeccabile ma non ancora ingabbiato nella perfezione quasi maniacale degli anni successivi.
Ricordo quando l’ho ascoltato per la prima volta: mi ha colpito quanto fosse già “Eric”, pur essendo così acerbo. C’è già la sua precisione chirurgica, il suo gusto melodico, il suo modo di trattare la chitarra come una voce solista che canta davvero, senza fronzoli inutili.
La storia vuole che il disco sia rimasto nel cassetto per contratti, problemi con le etichette e numerose revisioni, ma forse era giusto così.
Seven Worlds è diventato una sorta di leggenda metropolitana per i fan, il “disco perduto”. E come tutte le cose che si fanno aspettare, quando finalmente è uscito ha avuto un sapore ancora più speciale.
Tones (1986): il primo vero manifesto artistico
Con Tones, Eric Johnson entra davvero nel mondo della chitarra moderna.
Siamo a metà anni ’80, era di shredder, neon e produzioni patinate. E lui arriva con un approccio completamente differente: tecnico sì, ma sempre musicale, sempre elegante, sempre melodico.
Quello che mi affascina di questo album è che ogni singolo brano sembra costruito per esprimere un’emozione precisa. Johnson non suona una nota in più di quelle necessarie, nonostante sia uno dei chitarristi più tecnici di sempre.
La cosa che più impressiona? La pulizia. Se c’è un chitarrista che ha alzato l’asticella del “playing pulito”, quello è Eric Johnson. Ci sono licks che, per quanto siano veloci, sembrano fatti al rallentatore per quanto sono nitidi. Lui li suona come se stesse respirando.
In Tones troviamo già il suo approccio distintivo alle progressioni, con quegli accordi aperti, sospesi, che fanno risuonare ogni corda nel modo più armonico possibile. Un linguaggio che influenzerà generazioni intere. Nel maggio 1986, una foto di Eric con il titolo “Chi è Eric Johnson e perché è sulla nostra copertina” compare su Guitar World per passare alla storia. Nessuno prima di allora si era guadagnato uno spazio così importante al debutto discografico!
Ah Via Musicom (1990): il capolavoro assoluto
Ci sono album che diventano storici perché catturano un momento irripetibile, in cui un artista sembra toccare uno stato di grazia. Per Eric Johnson, questo momento è Ah Via Musicom.
Ogni traccia ha vita propria. Non c’è nulla di superfluo e le linee di chitarra sono nitide e riconoscibili. È questo che differenzia Eric da molti virtuosi dell’epoca: la melodia viene prima della tecnica, sempre.
E poi c’è il Grammy per Cliffs Of Dover come Best Instrumental Rock. Quella vittoria non è stata solo un riconoscimento per lui, ma un segnale per tutti noi chitarristi: la chitarra strumentale, quando suonata così, può davvero parlare al mondo. Una menzione speciale va fatta al celebre Live a Austin City Limits. Se non l’avete mai visto, fermate tutto e recuperatelo. Quello show è uno dei punti più alti nella storia della musica e in particolare la intro di Cliffs Of Dover si erge a manifesto della chitarra moderna.
Venus Isle (1996): il lato meditativo e poetico
Dopo un capolavoro come Ah Via Musicom, la pressione su Johnson era enorme. Dopo 6 anni di tour, video didattici, interviste arriva il nuovo disco. Invece di cercare di replicare la formula vincente, lui fa una cosa più coraggiosa: va da un’altra parte.
Venus Isle è un album molto più introspettivo, più atmosferico, quasi spirituale in certi momenti.
La tecnica è sempre lì, ovviamente, ma stavolta è nascosta dentro soundscape più ampi, più morbidi. Ci sono brani che sembrano quadri impressionisti, pieni di colori ma senza contorni netti.
Brani come Manhattan, Pavillon, SRV che dimostrano l’incredibile versatilità e musicalità sconfinata di Johnson.
La sua strumentazione: il regno della perfezione maniacale
Parlare della strumentazione di Eric Johnson è quasi impossibile senza far sembrare tutto un romanzo di fantascienza.
È famoso per essere uno dei musicisti più ossessivi sul suono: cavi specifici, batterie specifiche nei pedali, inclinazione degli altoparlanti, amplificatori accoppiati in modo scientifico.
Ma vediamo i suoi pilastri.
La Fender Stratocaster del ’54
Quella che tutti conoscono come “Virginia”. Il nome deriva da un nastro ritrovato da Eric sotto al battipenna che riportava il nome della donna responsabile del montaggio dei pick up sullo strumento, Virginia appunto!
Una Stratocaster sunburst con pickup DiMarzio HS-2 al ponte (sia in serie che in modalità single-coil stack) e un suono che definire iconico è riduttivo. In seconda posizione infatti il suono è fuori fase, ovvero più brillante e sottile. Il radius della tastiera è stato modificato da 7,25” a 12” e i tasti sono Jumbo.
È la chitarra che senti in Ah Via Musicom e in metà della sua discografia.
I pedali
Il suo rig di effetti è diventato un meme nella comunità chitarristica per quanto sia complesso. Ma ci sono alcuni “mattoni” fondamentali del suo suono:
- Tube Driver: la sua distorsione principale, cremosa e articolata.
- Echoplex: per il delay “vintage”, quello che crea lo spazio tridimensionale.
- TC Electronic Stereo Chorus: sempre dosato con gusto, mai invadente.
- Fuzz Face: per il lato più hendrixiano, mai cancellato dal suo DNA.
Gli amplificatori
Lui è uno dei grandi maestri dell’unione Marshall + Fender.
• Marshall Plexi per il corpo e l’attacco.
• Fender Twin Reverb per la tridimensionalità e il clean infinito.
• A volte Dumble Steel String Singer, quando vuole una pasta più liquida e vocale.
Per emulare e semplificare il suo suono ho usato il bellissimo Delay Halo by Keeley, pedale signature di un altro mio eroe che è Andy Timmons e del quale vi ho già parlato in questo articolo.
Il chorus è un Blue Hippo della Way Huge e il drive un Maxon SD9.
Come amplificatore ho usato una testata Victory V40.
La tecnica: tra poesia, matematica e artigianato del suono
Quello che più amo di Eric Johnson non è la sua tecnica in sé, ma il fatto che sembri quasi una conseguenza della sua musicalità, non un obiettivo.
Il suo modo di suonare gli accordi è qualcosa che ho cercato di studiare per anni.
Usa moltissimo:
- voicing aperti
- intervalli di terza e sesta
- armonici naturali
- droni su corde a vuoto
È un approccio quasi pianistico, dove la chitarra diventa un’orchestra.
Impossibile non parlare delle sue celebri cascate pentatoniche, uno dei suoi marchi di fabbrica: rapide, pulitissime, eppure sempre musicali. Il trucco? Economy picking, legati, e soprattutto pattern simmetrici che lui sposta verticalmente sulla tastiera come se fosse un pianista. Ora che vi ho svelato la ricetta non vi resta che praticare per qualche centinaio di ore…
Perché Eric Johnson conta così tanto per me
Quando penso a Eric Johnson, non penso solo a un virtuoso. Penso a un musicista che ha dedicato tutta la sua vita alla ricerca della nota perfetta con il suono perfetto. Un artista che unisce melodie celestiali a una tecnica impossibile da ignorare, senza mai perdere la sincerità. Lui incarna una cosa che cerco da sempre anche nel mio percorso: la disciplina al servizio dell’emozione.
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