Negli anni Sessanta, mentre la musica occidentale abbracciava sonorità sempre più esotiche, un nuovo strumento entrava in scena: il sitar elettrico. Nacque come ponte tra l’India mistica e il rock psichedelico, tra il suono ipnotico del raga e la potenza delle chitarre elettriche. Dai Beatles ai Rolling Stones, passando per Steely Dan e Stevie Wonder, il sitar elettrico ha dato un tono inconfondibile alle hit di un’epoca irripetibile. Oggi, grazie a marchi come Danelectro, questo strumento continua a far vibrare le corde della nostalgia e della sperimentazione.
Ripercorriamo la sua storia, il suo suono e il fascino intramontabile del sitar elettrico che ha cambiato per sempre la musica pop.
Dall’India al rock: il fascino del sitar
Il sitar entrò nel mondo del rock quando i Beatles iniziarono il loro viaggio spirituale in India. Il brano Norwegian Wood in Rubber Soul fu il primo segnale: George Harrison aveva trovato una nuova musa sonora. Poco dopo, Brian Jones dei Rolling Stones rispose con Paint It, Black e Mother’s Little Helper, confermando che l’Occidente era ormai stregato dal suono orientale.
Nonostante l’entusiasmo, lo stesso Harrison ammise di non amare la moda che ne seguì:
“È diventato solo un modo per essere ‘alla moda’. Non era questo che volevo.”
Il problema era evidente: il sitar tradizionale era meraviglioso ma complesso, difficile da imparare per i musicisti rock abituati alle chitarre. Serviva una soluzione più pratica.
L’invenzione del sitar elettrico
La risposta arrivò da Vinnie Bell, un chitarrista session man di New York, e da Nat Daniel, fondatore di Danelectro. Insieme crearono nel 1967 il primo sitar elettrico, il Coral Sitar, prodotto sotto il nuovo marchio Coral™.
La chiave del successo fu un’idea geniale: il buzz bridge, un ponte piatto in plastica progettato per riprodurre la risonanza vibrante del sitar indiano. Questo design conferiva alle corde quel caratteristico “ronzio” che rendeva il suono ipnotico e unico.
Il Coral Sitar aveva sei corde principali e tredici corde “drone”, pensate per creare una vibrazione di sottofondo simile alle corde simpatiche di un sitar vero. In pratica, non funzionavano come quelle dell’originale strumento indiano, ma il risultato era comunque magico: un sitar suonabile come una chitarra elettrica.
Il suono del Flower Power
Negli anni della generazione Woodstock, il Coral Sitar divenne simbolo di libertà e sperimentazione. Le sue sonorità comparvero in brani come Monterey di Eric Burdon and the Animals, Games People Play di Joe South, Signed, Sealed, Delivered di Stevie Wonder e Hooked on a Feeling di B. J. Thomas.
Il sitar elettrico divenne anche protagonista nel capolavoro Do It Again degli Steely Dan, dove Denny Dias firmò un assolo memorabile utilizzando proprio un Coral Sitar.
Dalla Coral alla Danelectro: il ritorno del ronzio
Dopo il declino della produzione originale alla fine degli anni Sessanta, il sitar elettrico tornò ciclicamente in auge. Danelectro lanciò un proprio modello più vicino nella forma al sitar tradizionale, con corpo a goccia e un piccolo poggialeggio per chi preferiva suonare da seduto.
Tra le reinterpretazioni moderne spiccano le versioni di Jerry Jones, che per anni ha costruito copie fedeli dei modelli Coral e Dano, e la Italia Modena Sitar, disegnata da Trev Wilkinson. Quest’ultima adotta un ponte Gotoh, evoluzione raffinata dell’originale buzz bridge, con doppia curvatura e scanalature per un controllo più preciso del “ronzio”.
La rinascita del sitar elettrico
Oggi, la Danelectro Sitar è tornata per far rivivere il suono del Flower Power con un nuovo modello di sitar elettrico.
Il corpo in pioppo semiacustico, il manico in acero e la tastiera in palissandro ospitano tre pickup Lipstick Vintage che catturano tutta la magia psichedelica degli anni Sessanta. Il modello attuale mantiene le tredici corde “Drone” e offre totale libertà di accordatura. Il ponte in palissandro e alluminio e l’hardware cromato completano l’estetica vintage della finitura Red Crackle.
Il risultato? Un suono vibrante, caldo e ipnotico che invita a lunghe sessioni improvvisate, come se l’incenso dei tempi di Norwegian Wood non si fosse mai spento.
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