Dopo il doppio Electric Ladyland, considerato da molti il suo capolavoro, il Jimi Hendrix che tutti avevano imparato a conoscere inizia a cambiare pelle. Il chitarrista mattatore appare più vulnerabile, è attraversato da dubbi e mostra segni di fragilità. La sua morte improvvisa in una notte di settembre di oltre mezzo secolo fa lascia in sospeso una serie di cose incompiute: abbozzi di nuovi dischi, canzoni, nastri, progetti, idee, aspirazioni… E una serie di album pubblicati a suo nome destinati a far discutere.
Il 1969/70 di Jimi Hendrix
L’ultimo anno e mezzo di vita di Hendrix è un periodo discontinuo sul piano artistico ed esistenziale. Il 1969-1970 di Jimi è infatti segnato da forti esigenze di rinnovamento, da pressioni insostenibili e da collaborazioni avviate o abortite sul nascere (su tutte quelle in ambito jazz con Miles Davis e Gil Evans). Inoltre, presenta altalenanti esibizioni dal vivo e, soprattutto, è segnato da un complesso lavoro in studio di registrazione: quello che andrà a comporre una copiosa quanto magmatica discografia postuma, diventata terreno fertile per alterazioni e appropriazioni indebite.
In questo articolo ci occuperemo delle primissime uscite a seguito della sua morte.
Gli Electric Lady Studios e la suite
Inaugurati poche settimane prima della sua morte, Hendrix non poté sfruttare per la nuova musica che voleva creare i suoi Electric Lady Studios. Eppure i suoi studi di registrazione newyorkesi – che ospiteranno negli anni artisti come Patti Smith, Led Zeppelin, Stevie Wonder, Rolling Stones, David Bowie, Lou Reed, Carlos Santana, The Clash, AC/DC, Depeche Mode – erano il suo sogno da tempo e vi aveva investito moltissimo in termini di denaro, energia e ore di lavoro.
Non appena la notizia della sua morte a Londra arrivò anche oltreoceano, qualcuno si intrufolò nell’appartamento newyorkese di Jimi e lo svuotò trafugando e portando via nastri, tappeti, chitarre, appunti, oggetti di valore, fotografie, affetti personali, vestiti… Purtroppo, tra il materiale nascostamente sottratto in quella circostanza c’erano anche i nastri di una suite autobiografica, dal titolo black gold, su cui Jimi stava lavorando. Nessuno più li avrebbe ritrovati, incrementando così l’aura leggendaria di quest’opera ammantata di mistero.
Gli album postumi di Hendrix e le questioni in sospeso
Sin da subito, la scomparsa del chitarrista segnò l’inizio di una serie di appropriazioni indebite e di un lunghissimo e controverso sfruttamento del suo lascito artistico, interessando sia i suoi guadagni che il mare sterminato delle sue incisioni.
In assenza di testamento, Jimi lasciava dietro di sé un sacco di “questioni in sospeso”: debiti, royalties arretrate, dispute legali, questioni ereditarie. E, naturalmente, tutto il materiale registrato e ancora da completare: scatole e scatole di nastri, una serie sterminata di jam private e pubbliche, lavori in studio e senza titolo, collaborazioni con altri musicisti, master e frammenti di composizioni, demo casalinghe, prove di incisioni, overdub di chitarre, vecchie outtakes, appunti musicali, scheletri di pezzi che cambiavano titolo o che venivano uniti e mischiati ad altri…
In sintesi, la manciata di dischi usciti dal 1967 al 1970, con i quali Hendrix sarebbe entrato per sempre nella storia della musica, non erano che la classica punta di un iceberg. Negli ultimi due anni aveva lavorato intensamente in diversi studi di registrazione, incidendo centinaia di ore di nastri.
Un lascito sterminato e caotico
Jimi, di fatto, uscì di scena quando tutti erano in attesa del suo prossimo album di inediti, il cui titolo provvisorio più plausibile era First Rays of the New Rising Sun. Nessuna traccia, però, aveva ancora visto definitivamente la luce o avuto un mix finale. Era estremamente difficile capire quali fossero le sue reali intenzioni circa questo nuovo album doppio, dal momento che la questione non era chiara nemmeno a lui. Hendrix, infatti, riteneva ancora da completare gran parte delle registrazioni fatte sino ad allora.
Chi vi mise mano in seguito alla sua morte si trovò così a disporre di una quantità impressionante di materiale. Il più fertile dei terreni perché spuntassero, per i decenni a venire e in diverse guise e versioni, centinaia di pubblicazioni discografiche, alcuni delle quali addirittura promosse e accolte come veri e propri album di Jimi Hendrix. Il suo magmatico lascito avrebbe infatti prodotto svariati cataloghi e caotiche ma non meno remunerative uscite, via via confluendo in una profusione di dischi, Lp, live di varia fattura e provenienza, curati da persone diverse nel corso del tempo e con differenti gradi di autorizzazione e ufficialità.
The Cry of Love
Il primo disco postumo uscì nel marzo 1971 ad appena cinque mesi dalla sua scomparsa, e immediatamente apparve un lavoro in sé incompiuto: il titolo, infatti, non riprendeva nessuno di quelli paventati da Hendrix ma si rifaceva al nome del suo ultimo tour americano. The Cry of Love fu assemblato in poco tempo per ovvie ragioni commerciali, ma da persone che lo conoscevano bene come il batterista con cui più aveva lavorato, Mitch Mitchell, e l’ingegnere del suono Eddie Kramer.
La loro scelta ricadde su nove dei brani indicati da Jimi in una fase ancora interlocutoria del nuovo progetto: alcuni di questi – come Freedom e In From The Storm (inizialmente intitolata Just Come In e qui remixata da Kramer) – erano stati presentati anche nella recente esibizione sull’isola di Wight, mentre gli altri provenivano da momenti diversi e fonti eterogenee: Ezy Rider, Night Bird Flying, Straight Ahead, Belly Button Window, Angel, Drifting, la sua ballata sulla “deriva”, e Astro Man, forse l’unico pezzo superstite della suite black gold, di cui esistevano peraltro diverse versioni. A queste tracce aggiunsero l’affascinante blues di My Friend, vecchia outtake di Electric Ladyland suonata sul sottofondo dei rumori da bar.
Si trattava, dunque, di un disco singolo e non doppio com’era nelle intenzioni di Hendrix. Vi restarono escluse diverse canzoni suonate dal vivo nell’ultimo anno se non addirittura da lui annunciate dal palco come brani del suo prossimo album.
Anche da morto, quindi, il lavoro di Hendrix sembrava essere soggetto alle medesime dinamiche e pressioni di quando era vivo, con manager, promoter e case discografiche che volevano vedere al più presto assemblato un disco col suo nome e il suo pubblico ancora in lutto che non vedeva l’ora di ascoltare su cosa stesse effettivamente lavorando.
Rainbow Bridge
Nel novembre 1971, quindi a stretto giro di posta rispetto al primo, uscì anche il secondo album postumo a sua firma. Questa volta il titolo, Rainbow Bridge, fu mutuato dal film a cui Jimi aveva partecipato nell’estate del 1970, ma con la pellicola aveva in realtà poco a che fare.
Sempre sotto la supervisione di Kramer, composero anche questo Lp mettendo insieme fonti diverse e materiale d’archivio lasciato fuori da The Cry of Love. Finalmente vi trovarono posto Room Full of Mirrors e Earth Blues, risalenti a sessioni della Band of Gypsys di fine 1969 e in parte rivisti nel giugno 1970 con Mitchell alla batteria, nonché il trascinante rock-funk di Dolly Dagger, anch’essa presentata a Wight come una delle canzoni su cui stava lavorando e registrata tra luglio e agosto.
La tracklist comprendeva altri brani proposti più volte dal vivo come Hey Baby (New Rising Sun) e Hear My Train A-Comin’, qui presentato nella lunga e dirompente versione – da molti considerata quella “definitiva” – tratta dai concerti a Berkeley del 30 maggio 1970. Completavano il disco la meravigliosa Pali Gap, un pezzo strumentale possibile candidato a entrare nella colonna sonora del film, una sbiadita versione in studio di Star Spangled Banner, imparagonabile per intensità all’esecuzione-capolavoro di Woodstock, e Look Over Yonder, una vecchia incisione prima conosciuta sotto altro titolo e qui fortemente remixata da Kramer.
Verso il funk
Da questi primi due album postumi pubblicati nel 1971, non privi di qualche manipolazione su alcuni brani lasciati incompiuti da Jimi agli studi Electric Lady, emergeva chiaramente come la sua musica si stesse orientando sempre più verso sonorità funk: un elemento di grande interesse per pubblico e critica musicale. In ogni caso, delle diciotto tracce complessive, molte erano indubbiamente tra quelle che Hendrix aveva in mente di inserire nel nuovo album, ma ne restavano escluse altre che facevano parte del suo progetto originario, alle quali furono preferite outtakes e brani dal vivo.
Isle of Wight e Hendrix in the West
Per andare incontro alle forti aspettative dei fan, sempre alla fine del 1971 uscì il live Isle of Wight, il “disco del festival” in cui Jimi e la sua band avevano dato una prova non sempre impeccabile delle loro immense qualità, ma che letto retrospettivamente diventava un documento storico eccezionale, soprattutto per chi voleva leggervi il suo “concerto di addio”. In realtà l’album – a cui Kramer questa volta si rifiutò di mettere mano – presentava poco più di mezzora dello show, per un totale di sei sole tracce.
A breve distanza, nel gennaio 1972 seguì Hendrix in the West: su pressioni del suo manager Jeffery furono messi insieme diversi show dal vivo tra quelli a disposizione in archivio, provenienti da vari concerti: Royal Albert Hall di Londra del febbraio 1969; San Diego Sports Arena del 24 maggio 1969; Berkeley di un anno dopo (di cui era anche uscito il film Jimi Plays Berkeley, con le trascinanti Johnny B. Goode e Lover Man), e di nuovo isola di Wight.
Angel
Il 1972 fu anche l’anno che vide tornare in classifica un brano di Hendrix grazie alla graffiante interpretazione di Angel del cantante inglese Rod Stewart. Un successo che per molti versi rese ancora più inspiegabile il fatto che non fosse mai uscita quando Jimi era vivo, data l’assoluta bellezza della tessitura da lui operata nel brano fra testo, armonia e atmosfera generale. Eppure, per lui era ancora incompiuta, e questo la dice lunga sulla sua meticolosità e ricerca di perfezione, ma anche sull’enigmatica e sublime incompiutezza che caratterizza tutta l’opera che, andandosene, Jimi ha lasciato in sospeso.
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