La morte improvvisa e controversa di Jimi Hendrix nella notte del 18 settembre 1970 lasciò in sospeso abbozzi di nuovi dischi, progetti, aspirazioni e una serie di album pubblicati a suo nome dopo la sua scomparsa. Dopo il primo articolo che ricostruiva la genesi dei primi dischi postumi, proseguiamo con una manciata di pubblicazioni, comprese tra il 1972 e il 1997, destinate a far discutere pubblico e critica.
War Heroes
Ancora sotto la direzione del manager Jeffery e l’ausilio dell’ingegnere del suono Kramer, nell’ottobre del 1972 uscì War Heroes, un titolo che sarebbe andato indigesto al pacifista Hendrix e che per ragioni commerciali strizzava l’occhio alle forti proteste contro il Vietnam di quel periodo.
Perlopiù questo lavoro comprendeva outtakes, scarti e frammenti di pezzi inutilizzati, con materiale proveniente da diversi nastri risalenti fino a due anni prima della scomparsa del chitarrista mancino. Conteneva, però, anche il remix di Stepping Stone e Izabella, che era uscito in America come singolo della Band of Gypsys, nonché Bleeding Heart, una cover del grande Elmore James registrata da Jimi, Mitch Mitchell e Billy Cox nella tarda primavera del 1970, e Beginning(s), pezzo presentato a Woodstock con il titolo di Jam Back at the House.
Il fatidico 1973
Il 1973 fu l’anno del documentario A Film About Jimi Hendrix curato da Joe Boyd, con interviste tra gli altri a Eric Clapton, Pete Townshend e Mick Jagger.
Ma fu anche l’anno di una svolta importante: il 5 marzo lo storico e chiacchierato manager di Jimi, Mike Jeffery, morì in un incidente aereo. La sua scomparsa, messa in dubbio da alcuni che sospettavano si trattasse dell’ennesima mossa del manager per sparire dai radar e fuggire col malloppo dei proventi derivanti dalla gestione di Hendrix, segnò di fatto la fine di un’epoca.
Districarsi nei meandri del complesso sistema societario ed economico messo in piedi da Jeffery e collaboratori si rivelò infatti una gatta da pelare. Già alla morte del chitarrista la situazione complessiva si presentava assai ingarbugliata, ma adesso, con l’uscita di scena del suo manager, il quadro si faceva ancora più contorto. Diritti, società fantasma, conti segreti, contratti, firme al buio, anticipi, royalties mai pagate, storni di fondi, contanti di cui si era persa ogni traccia. Poiché il suo nome continuava a generare affari per milioni di dollari, quella che stava per aprirsi era una lunga stagione di dispute giudiziarie legate all’eredità non solo artistica ma anche finanziaria di Jimi Hendrix.
Voodoo Soup
L’ambizione massima, quella cioè di mettere sul mercato il “vero album” che Jimi voleva realizzare, portò nell’aprile 1995 all’uscita di Voodoo Soup: a occuparsene fu Alan Douglas, un imprenditore discografico che Jimi aveva conosciuto alla fine del 1969.
Douglas non solo aveva entrature nel mondo del jazz, ma già in passato si era candidato come curatore del patrimonio di inediti del chitarrista di Seattle. Diceva di essere in possesso di vario materiale e, dopo l’uscita di scena di Jeffery, riuscì a prenderne di fatto il posto.
A venticinque anni dalla morte di Hendrix, la sua intenzione era di rimettere mano al materiale e ai nastri rimasti inutilizzati negli archivi. Un’operazione che declinò in senso piuttosto “creativo” e spregiudicato. In un primo momento decise di lasciare che fossero fan e appassionati a decidere quali brani inserire, ma il risultato finale fu Voodoo Soup che, come suggerisce il titolo, si rivelò più che altro una raccolta di outtakes e tracce eterogenee, corredata da versioni alternative post-Electric Ladyland di canzoni già uscite nei primi album postumi. Oltretutto, per questa operazione Douglas operò aggiunte, alterazioni, sovraincisioni e rivisitazioni alle registrazioni di Jimi.
Un gioco d’azzardo, per molti, a cui del resto non era nuovo.
Crash Landing
Douglas aveva già fatto qualcosa di simile una ventina d’anni prima con due album del 1975, Crash Landing e Midnight Lightning, a detta di molti tra i punti più bassi dell’intera vicenda postuma hendrixiana.
Su richiesta della casa discografica, dopo aver assunto il controllo del patrimonio artistico di Jimi, si era messo in cerca di materiale inedito ancora potenzialmente pubblicabile e si era imbattuto in una serie di nastri e demo incompiuti ai Record Plant di New York. Si trattava di numerose scatole di nastri, di centinaia di ore di registrazioni, di frammenti incompleti, di materiale sparso e confuso per nulla facile da mettere in ordine, in gran parte scartato o proveniente da periodi e formazioni differenti con cui Hendrix aveva lavorato.
Che farne? La decisione che Douglas prese, e che gli valse feroci critiche, fu quella di utilizzarlo comunque ma operando integrazioni e modifiche per giungere a confezionare una serie di canzoni complete. E per ultimare quest’impresa ambiziosa e spregiudicata si servì non dei musicisti che più avevano collaborato con Jimi, ma di turnisti. Procedette quindi a un profondo lavoro di “remixaggio” dei nastri originali modificandoli con sovraincisioni e correzioni alle parti strumentali, tra cui rimpiazzi, cancellature, rielaborazioni, incollature di frammenti, tagli. In alcuni casi Douglas comparve anche come co-autore di alcune canzoni.
In questo quadro piuttosto fosco, meritano comunque una menzione la title track del primo disco, Crash Landing, risalente a una registrazione dell’aprile 1969, e Somewhere, un brano molto affascinante sul piano poetico e musicale.
Va detto, per amore di verità, che Crash Landing raggiunse comunque i vertici delle classifiche americane. E questo nonostante fosse un lavoro decisamente controverso a livello filologico, come abbiamo visto, e sia stato giudicato ripugnante dai puristi e dagli appassionati più attenti alla “verità” storica dell’eredità hendrixiana.
Midnight Lightning
Il successivo Midnight Lightning, uscito a pochi mesi di distanza, seguì una logica simile ma apparve per certi versi un lavoro ancora più sbrigativo. Si basava infatti su scarti e una serie di canzoni già edite o molto suonate nei live dell’ultimo biennio da Jimi e compagni. Tra queste, si distinguevano i blues di Midnight Lightning, di cui esistevano varie versioni (qui presentato, in pieno stile Douglas, con alcune sovraincisioni), e Once I Had A Woman.
I primi raggi del nuovo sole nascente
A ben ventisette anni dalla sua morte fu pubblicato un album con il titolo e il formato che più probabilmente Hendrix avrebbe scelto per il materiale a cui stava lavorando prima di morire il 18 settembre 1970. Nell’aprile 1997 uscì il doppio First Rays of the New Rising Sun.
Da metà anni Novanta, a seguito di aspre battaglie legali, la famiglia di Jimi, e in particolare suo padre Al e la sorellastra Janie, assunse il controllo dell’eredità con lo scopo di gestire il “nuovo catalogo” delle opere del chitarrista.
La prima mossa in questa direzione fu quella di presentare al pubblico una versione “definitiva” dell’album al quale Jimi stava lavorando, comprensiva di tutte le canzoni che intendeva inserirvi. Ancora sotto la supervisione di Eddie Kramer prese avvio un grande lavoro di ricerca dei nastri originali.
Il risultato finale, però, non colmò le enormi aspettative. Nella tracklist entrarono canzoni uscite già nei primi due dischi postumi, The Cry of Love e Rainbow Bridge, alcune delle quali furono remixate con nuove tecnologie digitali, per un totale di diciassette tracce: Freedom, Drifting, Ezy Rider, Night Bird Flying, Straight Ahead, Astro Man, Angel, In From the Storm, Belly Button Window, My Friend, Room Full of Mirrors, Earth Blues, Dolly Dagger ed Hey Baby (New Rising Sun). A queste furono aggiunte Stepping Stone, Izabella e Beginnings riprese da War Heroes del 1972.
Continuavano pertanto a permanere differenze e lacune rispetto alle intenzioni originarie di Jimi, soprattutto se si fa riferimento a una scaletta quasi completa che Hendrix pare avesse abbozzato. Si trattava di indicazioni di massima sui brani che avrebbero dovuto coprire almeno tre lati del suo doppio Lp. Oltre alle canzoni confluite in First Rays, l’ossatura di base prevedeva altre tracce interessanti fra cui Drifter’s Escape, Come Down Hard on Me e Cherokee Mist, ma anche brani eterogenei o ancora embrionali come Valleys of Neptune, Look Over Yonder, Pali Gap e Lover Man.
Una breve nota personale
Quando uscì First Rays of the New Rising Sun avevo vent’anni e, come per molti della mia generazione, divenne subito un album di riferimento e consumatissimo. Nati nel decennio che era cominciato con la morte di Jimi, non ci curavamo troppo della provenienza oscura di quelle tracce, ma badavamo più che altro al sound, ai riff memorabili e ai versi di alcuni brani.
Solo più tardi, studiando il materiale postumo di Jimi, scoprii con sorpresa che anche per le carenze che abbiamo sottolineato il disco non fu accolto con troppo entusiasmo. Eppure, era molto atteso e annunciato come la vera ricostruzione dell’opera di Hendrix. Il pubblico più adulto di Jimi sembrava ormai abituato a simili delusioni.
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