Lo scorso luglio abbiamo avuto la fortuna e il piacere di essere ospiti della produzione di Marco Mengoni per il tour Marco negli Stadi 2025. Nella seconda data milanese, oltre a Peter Cornacchia, abbiamo potuto intervistare sul palco di San Siro anche Massimo Colagiovanni, chitarrista che fa parte della band di Marco dal 2019. Guardate la nostra intervista e il rig rundown per scoprire qualche curiosità sul suo percorso artistico e sulla strumentazione che ha utilizzato per tutto il tour!

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Planet Guitar: Amiche e amici di Planet Guitar con grandissimo piacere siamo riusciti a essere nel backstage di una delle produzioni italiane più importanti di quest’anno, quella di Marco Mengoni per Marco negli Stadi 2025. Siamo in compagnia di Massimo Colagiovanni, chitarrista di Marco Mengoni. Ciao Massimo, grazie per essere qui con noi. Voi non lo potete vedere ma io sì ed è fantastico, siamo nella cornice dello stadio San Siro, per il secondo show a Milano. Massimo, come sta andando il tour?

Massimo Colagiovanni: Benissimo! Poi questo stadio è veramente una cosa impressionante. Già quando ci entri ti viene un brividino, è proprio tutto vicino, non si vede il cielo per quanto sono alte le tribune, quindi veramente… l’emozione è incredibile qui dentro.

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P.G.: Allora Massimo, abbiamo fatto un giro prima di salire e tu e Peter Cornacchia, che è insieme a te l’altro chitarrista della band, ci avete fatto vedere il palco e la produzione è davvero impressionante. Mi hai detto che sono circa sei anni che suoni con Marco. Come hai visto l’evoluzione della produzione di questi show? Cosa ne pensi?

M.C.: Io sono entrato nella band nel 2019, quindi dal tour di Atlantico, che era il disco del 2018. Beh, quest’anno c’è stato un salto gigantesco perché la produzione ha assunto delle dimensioni molto più imponenti, mastodontiche. Per la prima volta ci sono dieci performer, per cui non c’è solo la band e i cori sul palco. E ci sono anche delle scenografie molto importanti. Succede di tutto e stasera lo vedrete!

Noi della band siamo più laterali quest’anno rispetto al centro del palco, perché visivamente il centro dello show sono i performer, oltre ovviamente a Marco. Infatti, guardando il palco, noi siamo sulla sinistra e qui è molto evidente l’obiettivo, a mio avviso, di andare verso una produzione internazionale. Questa è una tipologia di show che inizia a vedersi in America e credo che anche l’ambizione di una produzione di questo tipo sia andare in quella direzione lì.

Quindi non c’è soltanto la band che suona: noi siamo in tredici sul palco soltanto tra musicisti e coro. Però anche l’occhio vuole la sua parte, per cui tra video, luci, performer e Marco stesso c’è una parte importante di show proprio visiva.

P.G.: Come chitarrista da dove arrivi e quali sono state le tue influenze? Come sei arrivato a suonare su un palco come quello di San Siro, ascoltando che cosa? 

M.C.: I miei ascolti sono molto ad ampio spettro: dal rock al post rock. I Radiohead sono una delle mie band di riferimento, però faccio veramente fatica a fare un elenco. Ultimamente se entro in macchina parte il disco di Bon Iver. Come chitarristi adoro Blake Mills e Mk.gee, questa tipologia di cose… Poi se ti devo dire da dove vengo, mi piace De Gregori, mi piacciono i Pink Floyd, mi piace veramente tanto anche il jazz. Ho alle spalle anche un percorso accademico, dove tra l’altro ho conosciuto Peter. Nell’accademia che abbiamo fatto insieme lo studio è proprio improntato alla professione, con un approccio multistilistico, in modo tale da riuscire ad affrontare uno spettro ampio di possibilità.

P.G.: Parliamo di musica contemporanea, ma poi in mano hai uno strumento che tutti gli appassionati di chitarra conoscono: una bellissima Fender Telecaster. Lascio a te raccontarcela…

M.C.: Questo è il mio acquisto più recente e da quando ce l’ho mi ha cambiato un po’ gli equilibri: è veramente un passepartout e una chitarra incredibile. Se dovessi scegliere di togliere tutto e di averne una sola, sicuramente prenderei questa. Un’altra delle chitarre che uso di più è una Gibson ES-335, però ho anche una Suhr tipo Strat che è un bellissimo strumento. Ho una Danelectro con cui faccio un paio di brani perché è un semitono sotto e una SG nera meravigliosa.

E poi gli ampli e i cabinet [che si trovano al di sotto del palco, Ndr]: io uso come main una Plexi, quindi una Marshall 1987X, alla quale ho fatto mettere un Master Volume. Una modifica classica che serve sempre, perché anche in un contesto come lo stadio può fare comodo, devo dire. Ho poi una cassa Bogner che è una 2 coni e ha i Vintage 30 oversize. Soprattutto in uno show di questo tipo, però, dove chiaramente tutto è pensato al millimetro e quindi ogni suono deve essere perfetto, il centro del rig, il parco divertimenti per tutto, è la pedaliera.

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P.G.: Benissimo. La pedaliera… da dove partiamo?

M.C.: Il cervello della pedaliera è chiaramente il Musicom Lab, che funziona sia da looper che da controller MIDI. Per cui qui abbiamo i sei loop nei quali sono inseriti tutti i pedali analogici della pedaliera, in modo tale da non dover toccare nulla. Tutto è già regolato come voglio. I sei loop sono dedicati ai pedali analogici, che sono l’Agata, che è un boost overdrive di effettidiclara, marchio di due ragazzi di Roma bravissimi che hanno anche assemblato questa pedaliera. Poi c’è un MXR Timmy, che è un overdrive storico e non ha bisogno di presentazioni. Ci sono poi un RC Booster, che uso in realtà come leggero stadio di overdrive, e un distorsore VDL, che ha anche diversi forme d’onda. E poi c’è un altro classicone, il POG: lo uso come octaver in 3-4 brani. Un altro classico è il Keeley Compressor, che è veramente molto bello, dà un attacco particolare, schiarisce leggermente il suono.

E poi abbiamo un accordatore che ovviamente è in un loop separato, in modo tale da poterlo tenere sempre acceso. Ho tolto di recente un wah, perché non lo stavo usando, e ho messo un Polytune True Buffer, in modo tale da avere un buffer aggiuntivo rispetto al buffer della pedaliera. Questo mi fa riacquistare un pochino di segnale in più, in modo tale da perderne il meno possibile. Poi abbiamo la sfilata di Strymon: Mobius, Timeline e Big Sky e tutti quanti corrono in catena. Lo Strymon in particolare è cablato sia pre che post e si può scegliere dallo Strymon, preset per preset, se far passare il segnale pre o post rispetto ai vari loop, in modo tale da poter utilizzare i filtri diversamente rispetto alle modulazioni.

La cosa veramente comoda di un setup di questo tipo è con un tap poter richiamare tutto. Suoniamo 33 brani, quindi la comodità è quella di poter creare preset, poter assemblarli in song, poter assemblare le song in setlist e non solo. In questo show chiaramente ci sono anche delle sequenze, c’è un computer che comanda in sostanza tutte le luci, i video, eccetera e anche i program change per le pedaliere. Questi strumenti consentono effettivamente di non toccare nulla e lasciar fare tutto a loro. La cosa lunga, chiaramente, rispetto a un setup analogico è proprio la programmazione. Una volta finita la programmazione però, c’è tutto e sei in vacanza!

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P.G.: Ci piace molto l’integrazione della filosofia analogica con il digitale, che sappiamo sempre che è un po’ il grande cruccio di noi chitarristi. In questo modo è possibile pensare di poter sostenere uno show di questa portata con tranquillità su tutti i brani. Ma se dovessi scegliere un unico pedale del tuo rig, quale sarebbe?

M.C.: Te ne dico due. Il primo è il Timmy perché è veramente stupendo. Io lo uso per come è regolato come crunch. È lo stadio di saturazione che ti permette essenzialmente di fare un po’ tutto, volendo anche di muovere il volume. In un contesto come questo, chiaramente, in cui hai un ampio menù, non serve mettersi a abbassare e modificare, perché hai diversi gradi di saturazione che puoi mischiare, puoi cambiare routing e così via. Però se dovessi sceglierne uno, è quello. 

Il secondo che ti dico, di cui sono innamorato, è il Big Sky. Un pedale che io adoro e che ha alcuni algoritmi di riverbero semplicemente perfetti. In particolare io sono fan dell’opzione Magneto, che è un simulatore di eco a nastro, come un Echoplex old school. È super colorato e, a seconda di come gestisci le ripetizioni del nastro, veramente puoi farci di tutto.

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Il concerto che ha abbiamo ascoltato la sera dopo l’intervista ci ha confermato come Massimo sia ben inserito in una produzione di grandissimo livello, che è pronta per il grande salto anche all’estero. Sono previsti infatti proprio per il prossimo novembre ben dodici concerti nelle principali arene europee. L’appuntamento per i fan italiani con Marco Mengoni e la sua musica si rinnova invece già in questi giorni nei palazzetti di tutta Italia, a partire dall’Unipol Forum di Assago.

Per averci permesso di realizzare questa intervista ringraziamo, oltre a Massimo e Peter Cornacchia, tutta la produzione del tour Marco negli Stadi 2025 e Ricky Mozzo, preziosissimo backliner di Massimo e Peter che ci ha accompagnati nella realizzazione di entrambi i contenuti. 

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Riccardo Yuri Carlucci