Suona tenendo la tracolla della chitarra intorno alla vita, è eticamente contrario al versamento dei diritti d’autore alle band, chiede che il suo nome non venga citato negli album, fa a pezzi le chitarre per migliorarle: Steve Albini è un pensatore audace a cui non importa nulla della tradizione. In una parola, è un iconoclasta.
Come musicista, Albini si è guadagnato un seguito di cultori suonando in band come i Big Black e gli Shellac, ma con la sua audacia, la sua integrità e il suo impegno verso “fan e musicisti” ha anche aiutato innumerevoli artisti a “trovare il proprio sound”. Tra questi artisti figurano anche i Pixies, Iggy & The Stooges, i Cheap Trick e PJ Harvey, solo per nominarne alcuni. Oggi, a metà maggio 2023, Albini si prende una pausa dal suo interminabile programma per concedere a Planet Guitar un’intervista esclusiva sulle sue origini, le sue convinzioni e motivazioni e la sua passione finora sconosciuta.
PlanetGuitar: Benvenuto Steve. Com’è l’atmosfera a Chicago in questi giorni?
Steve Albini: Ottima, abbiamo appena eletto il primo sindaco dichiaratamente progressista e sono molto curioso di vedere cosa accadrà.
PlanetGuitar: Vivi a Chicago da anni: cosa ti piace di questa città?
S.A.: Mi piacciono un sacco di cose pratiche. Ci si sposta molto facilmente, il che è di grande aiuto per chi è in tour. Nel mio lavoro, di tanto in tanto ho bisogno di qualche saldatura o lavori meccanici, e questo è il posto ideale per farli. Inoltre il panorama musicale qui è perfetto. Davvero non riesco a pensare ad altre città che possano piacermi di più.
PlanetGuitar: Anche se la tua famiglia proviene dall’Italia settentrionale…
S.A.: Esatto, sono piemontesi. Il mio nonno paterno era emigrato negli Stati Uniti senza sapere l’inglese e senza istruzione formale. Vivevano di espedienti. I nonni materni si erano trasferiti prima nella California settentrionale, dove coltivavano olive e producevano olio.
PlanetGuitar: Continui ad avere rapporti con la città di origine della tua famiglia?
S.A.: Non proprio, anche se una volta sono stato a Torino e abbiamo cenato in un ristorantino a conduzione familiare dove le persone mi parlavano nel dialetto locale perché sembravo uno di loro. Sicuramente ho alcuni tratti piemontesi, come braccia e gambe molto lunghe e dinoccolate, occhi azzurri e capelli scuri; sono caratteristiche non comuni in altre regioni italiane.
PlanetGuitar: Sei cresciuto in una famiglia amante della musica?
S.A.: Mia madre suonava l’organo in chiesa e mio padre suonava canzoni folk alla chitarra. Non abbiamo avuto un’educazione musicale a casa; non c’erano momenti in cui si cantava e suonava insieme.
PlanetGuitar: Qual è stato il tuo primo strumento?
S.A.: A scuola ho imparato il clarinetto, ma quando ho scoperto il punk rock volevo suonare in una band, e lo strumento più semplice era il basso. Il primo è stato un Peavey T-40, che ho acquistato nel negozio di strumenti musicali di Missoula, Montana.
PlanetGuitar: Ce l’hai ancora?
S.A.: È stato fatto a pezzi quando i Big Black hanno suonato al nostro concerto finale e hanno distrutto tutta la nostra attrezzatura.
PlanetGuitar: Qual è la tua chitarra attuale?
S.A.: Avevo una Travis Bean TB500 quando ho fondato gli Shellac nel 1992.
A un concerto a Detroit, colpendo l’amplificatore con la paletta ho rotto la chitarra dividendola praticamente a metà. Nel lavoro di riassemblaggio Terry Straker, un liutaio di Guitar Works a Evanston, un quartiere di Chicago, ha costruito una piastra rettangolare in alluminio per rinforzare la parte vulnerabile della chitarra e quella piastra è stata poi integrata come caratteristica standard. Rende lo strumento più pesante, ma fa un’enorme differenza sotto il profilo della stabilità.
PlanetGuitar: Durante i tuoi anni di esordio sei stato influenzato da innovatori come i Ramones, i Pere Ubu, i Sex Pistols e i Fall. Possiamo dire che il punk è stato sia un’ispirazione musicale sia una guida per tutta la tua vita?
S.A.: Direi di sì. Il mio modo di lavorare e la mia etica nascono dall’appartenenza a una band punk autosufficiente, indipendente e underground, cosa che ha plasmato tutta la mia visione del mondo. Comportandoti in modo onesto e rispettabile puoi scuotere le coscienze. È un approccio che influenza ogni aspetto della mia vita.
PlanetGuitar: Sei molto noto per la tua forte posizione etica in base a cui rifiuti i diritti d’autore. Ritieni importante che anche gli altri seguano il tuo esempio?
S.A.: No, non sono un evangelista. La mia posizione mi fa sentire a posto con la coscienza e il mio intuito mi dice che sono corretto nei confronti delle persone con cui lavoro. Nell’industria discografica in molti si comportano da parassiti e danneggiano il progetto centrale, ossia la band. Semplicemente non voglio essere uno di loro.
PlanetGuitar: Una volta hai detto: “Mi piace il rumore forte e brutale che mi fa girare la testa”, ma hai lavorato con band molto diverse, come i Mono, e con musicisti classici. Cosa accomuna queste scelte così diverse?
S.A.: Penso che tu abbia toccato un punto che rappresenta una debolezza in molte persone nella mia posizione. Molti tecnici di registrazione o produttori aspirano a lavorare a progetti che soddisfino i loro gusti personali. Francamente a me non importa che tipo di musica facciano i miei clienti. Mi sforzo persino di non formarmi un’opinione sulla musica su cui lavoro. Se sento che sto diventando un fan, devo fare un passo indietro, altrimenti non lavoro come si deve.
PlanetGuitar: Nevermind dei Nirvana non ti piaceva particolarmente, eppure hai accettato di lavorare a In Utero. Quando è stato il momento in cui ti sei detto: “Sì, lo faccio”?
S.A.: In primo luogo, non posso permettermi di rifiutare il lavoro. Quanto ai Nirvana, per me sarebbe stato impossibile partecipare al progetto senza essere consapevole delle meta-implicazioni derivanti da una collaborazione con la più grande band al mondo. Ma soprattutto, i Nirvana erano diventati grandi essendo una rock band underground convenzionale: suonavano negli stessi posti in cui suonava la mia band, avevano le stesse amicizie e le stesse esperienze, dunque era facile comunicare con loro. Potevano citare i Killdozer o i Necros e sapevo di cosa stessero parlando, cosa molto importante.
Hai ragione, inizialmente non ero un loro fan, ma osservare la band da vicino, vedere com’erano strutturati e ascoltare Kurt, che penso fosse un talento della sua generazione, con quell’abilità unica di evocare uno stato emotivo attraverso la sua voce, mi ha permesso di apprezzarli in un modo nuovo. Alla fine sono diventato un loro fan, e penso fossero una grande band.
PlanetGuitar: I Joy Division erano stupiti dalla differenza di sound tra i loro album in studio e le loro esibizioni dal vivo: pensi che il loro produttore avesse esagerato?
S.A.: Beh, sembrava che Martin Hannett avesse preso il controllo del sound e in molti casi si comportava come se fosse superiore ai membri della band. Non è il mio metodo, ma mi sono piaciute molto Unknown Pleasures e Closer e non voglio dire che abbiano commesso un errore. Per la cronaca, preferisco il materiale dei loro bootleg e le registrazioni dal vivo, come Warsaw, ma non intendo mettere in discussione le loro registrazioni in studio perché le trovo straordinarie.
Mentre la nostra intervista si avvia verso la fine, Albini rivela che gli Shellac hanno pronto un nuovo album che entrerà in commercio non appena gli impianti di produzione avranno smaltito l’arretrato post-covid. Questa Incisione naturalmente si è svolta in parallelo con tutti i suoi altri impegni di registrazione e di lavoro nonché, come gli ricordo, con tutti i suoi interessi: pittura, fotografia, giornalismo, cucina, poker e beneficenza.
Sarebbe troppo per la maggior parte delle persone, ma quando gli chiedo sfacciatamente se abbia qualche altra passione segreta lui ride e ammette che gli piace la falegnameria. “Quando un tavolo, uno sgabello o degli scaffali costruiti a mano diventano parte del normale mobilio di casa tua, provi un senso di gratificazione suprema”, dice. Steve Albini: iconoclasta fino in fondo!
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