C’è chi dice che John Myung – il co-fondatore dei Dream Theater e ampiamente considerato tra i migliori bassisti del mondo – sia un tipo schivo. Planet Guitar si chiede se questa reputazione non sia immeritata, poiché Myung parla apertamente e volentieri del suo recente infortunio alla testa, del suo rapporto con l’Estremo Oriente e del legame di una vita con il suo partner artistico John Petrucci

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Planet Guitar: I fan si sono preoccupati nel vederti esibire di recente con la testa fasciata; come stai?

John Myung: Sto benissimo. L’evento è stato causato dalla disidratazione durante il tour. Eravamo sempre in viaggio e la tredicesima notte eravamo sull’autobus e non stavo bevendo abbastanza acqua. Verso le 2.30 del mattino mi sono svegliato a un posto di controllo di frontiera, sono entrato nell’edificio e subito dopo sono svenuto e ho colpito un palo di metallo con la parte destra della fronte, provocandomi un taglio. Sono andato all’ospedale di Bellingham, Washington, e mi hanno ricucito. Abbiamo finito lo spettacolo e da allora sto bene come prima. Quindi… non sottovalutate i benefici dell’acqua. La vostra vita non “scorrerà” senza!

PG: Tornando alle tue radici, sei cresciuto a Long Island, ma i tuoi genitori sono originari della Corea del Sud; erano dei musicisti?

JM: Mia madre lo era. È cresciuta ascoltando musica classica e pianoforte e mi ha avviato al metodo Shinichi Suzuki per il violino a cinque anni. Circa 10 o 11 anni dopo, mi sono avvicinato al rock. Quando ascoltavo gruppi come i Rush c’era qualcosa che mi toccava: erano tutto per me, una connessione davvero potente.  

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Ulteriori informazioni

PG: Qual è stato il tuo rapporto con la Corea del Sud durante l’infanzia?

JM: Beh, la famiglia di mia madre è fuggita dalla guerra. Per entrare in America bisognava avere uno sponsor, così una suora la sponsorizzò, ma bisognava anche svolgere una professione, perciò lei arrivò come infermiera e mio padre come studente. Si sono conosciuti a Chicago, dove sono nato. 

PG: Da giovane sei tornato con loro a Seoul?

JM: No, sono stato qualche anno a Chicago e poi ci siamo trasferiti a New York e abbiamo vissuto vicino alla Columbia University. Volevano “americanizzarmi”, concentrarsi sull’apprendimento dell’inglese americano e non confondermi. Non sapevano che non si può confondere un bambino: un bambino assorbe tutto come una spugna! 

PG: La filosofia orientale è importante per te?

JM: Non separo le persone in base alla loro provenienza o alla loro religione. Si tratta piuttosto di entrare in contatto con le persone: se mi trattano bene, io tratto bene loro. È più una questione di rispetto. 

C’è un bel libro intitolato Il potere del mito dello studioso di religioni Joseph Campbell, che riduce tutto a un’idea centrale. Ci sono principi fondanti che ci legano tutti insieme. Quindi, tutto è un’unica cosa. Per me ha molto senso.

PG: Quanti anni avevi quando hai incontrato John Petrucci?

JM: 12 o 13. Poi, verso i 15 anni, è nata l’idea di voler far parte di una band. Andavo a casa di un mio amico e in una stanza c’erano una batteria, chitarre e amplificatori per il basso. Prendevamo in mano uno strumento e una cosa tirava l’altra. Un ragazzo che abitava in fondo alla strada aveva bisogno di un bassista, ho provato e mi è piaciuto molto. 

PG: Di che marca era il tuo primo basso?

JM: Il primo era un modello generico tobacco sunburst, ma quando ho iniziato ad appassionarmi, ho preso un Rickenbacker e poi ho iniziato a suonare senza sosta, sempre!

PG: E ora sei legato al tuo basso Bongo: questo matrimonio è per sempre?

JM: Penso di sì. In termini di qualcosa che funzioni davvero a tutti i livelli, ha tutto ciò di cui ho bisogno. Lo adoro e sono molto grato di avere qualcosa di simile.

Music Man Bongo 6 HH SBK

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(9)

PG: Tu, Petrucci e Mike Portnoy avete deciso di abbandonare il Berklee College of Music nello stesso periodo: l’avreste fatto comunque?

JM: Non lo so. Eravamo tutti pronti a tornare quell’autunno, ma poi ci siamo resi conto che questo avrebbe compromesso la possibilità di fare quello che stavamo facendo. Ci incontravamo tra le 18.00 e le 24.00 ogni sera, dal lunedì al venerdì; lavoravamo su un’idea e la trasformavamo in una canzone. Così abbiamo lavorato per molti anni sul materiale che è poi confluito nel nostro album di svolta, Images and Words. Da allora tutto è stato costruito in base alle scadenze. Non c’è più stato quel periodo di tempo che c’è stato prima del successo. Una volta che la macchina inizia a girare, diventa molto impegnativo e la mentalità completamente diversa. Tuttavia, questa è una delle transizioni che dovevano avvenire per permetterci di fare quello che facciamo.

PG: Deve essere stata una grande emozione abbandonare tutto per la musica… 

JM: Sì, ripenso a quegli anni ed eravamo molto motivati. Voglio dire, lo siamo ancora, ma è sorprendente come quando sei giovane puoi spingerti oltre. Quando si invecchia però, si vedono più cose e si impara molto di più. Quindi, è un trade-off. 

PG: Hai citato come influenze i bassisti dei Rush, dei Black Sabbath, degli Iron Maiden e degli Yes, ma anche Jaco Pastorius: sei un appassionato di jazz? 

JM: Il jazz è fantastico… A Berklee ascoltavo molto Miles Davis, Yellow Jackets, Weather Report e Jaco. Tuttavia mi piace l’energia e l’immediatezza del rock. È più il modo in cui sono strutturato musicalmente. 

PG: Molti fan sceglierebbero Images and Words, Awake, Metropolis part II e Six Degrees of Inner Turbulence tra i loro preferiti: qual è la tua opinione al riguardo?

JM: Lo capisco… c’è qualcosa di speciale nella prima parte della carriera di una band e nel materiale che vi si trova. Poi le cose cambiano, perché la vita cambia…

PG: Eppure è stata The Alien da A View from the Top of the World a farvi vincere un Grammy, molto più recentemente…

JM: Esatto, ecco. Voglio dire, è tutta una questione di tempismo, con cose del genere, trovare il brano giusto al momento giusto. 

PG: Al di fuori dei Dream Theater, hai collaborato con Platypus e Jelly Jam: potresti lavorare di nuovo con Ty Tabor e Rod Morgenstein?

JM: Non vedo perché no. È una cosa che facciamo quando abbiamo del tempo in più. Però più si invecchia e più ci si rende conto di avere meno tempo a disposizione… Sento il bisogno di essere più concentrato. È certamente un’esperienza gratificante, ma è molto impegnativa… 

PG: Tu e John siete regolarmente in contatto con Mike Portnoy?

JM: Restiamo in contatto e ci incontriamo ogni tanto per una cena, per un compleanno e cose del genere.

PG: E le vostre conversazioni si estendono mai a possibili collaborazioni musicali future?

JM: Beh, il futuro è sempre aperto. Lasciamo le cose come stanno. [ridono entrambi]

PG: Molti ti considerano uno dei migliori bassisti al mondo: come fai a continuare a metterti alla prova?

JM: La cosa principale è cercare di capire cosa faccio e cercare di dirigerlo, perché all’inizio molto è spontaneo. Ora mi chiedo: “Perché questa serie di note e il modo in cui le ho suonate mi hanno colpito come idea?“. E “Perché il gruppo di note che le circonda sono note che mi dicono qualcosa?“. A volte accade qualcosa di magico, ma per lo più è il risultato del tempo che ci si dedica. E questa è una delle cose più belle dell’essere nei Dream Theater: tutti pensiamo in questo modo; c’è questo meltin’ pot di energia.

L’intervista si chiude con una domanda di Planet Guitar sul forte spirito di squadra dei Dream Theater, e in particolare sulla dimostrazione che Myung ne ha dato per tutta la vita con Petrucci. “Sì, ricordo di aver avuto conversazioni con John a scuola e cose del genere, e siamo sempre stati in sintonia; è sempre stato qualcuno con cui potevi parlare di qualsiasi cosa“, conclude. “È un rapporto davvero speciale quello che abbiamo“. 

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Paul Rigg