Abbiamo avuto il grande piacere di intervistare Claudio Bazzari, uno di quei chitarristi che staresti ad ascoltare per ore, con o senza la chitarra in mano. In attività nel campo musicale dalla fine degli anni sessanta, Claudio ha suonato nei dischi di innumerevoli artisti fra i quali ricordiamo Fabrizio De Andrè, Gianna Nannini, Eros Ramazzotti, Mina, Edoardo Bennato, Loredana Bertè, Gianni Morandi e ha accompagnato live Adriano Celentano, Antonello Venditti e Milva. Nel 1981 vinse il Telegatto come miglior turnista di quella stagione discografica. Siamo andati a trovarlo al CPM di Milano, dove insegna ormai da diversi anni, dimostrando un grande attaccamento anche all’attività didattica. 

Planet Guitar: Ciao Claudio e benvenuto su Planet Guitar! Parliamo del tuo inizio di carriera, come mai ti sei appassionato alla chitarra e come sei finito poi a fare il chitarrista professionista?

Claudio Bazzari: La mia carriera inizia nel secolo scorso, molto indietro nel tempo. A me piace dire che la mia passione per la musica è nata per “colpa” dei Beatles.

Fino ai 15 anni non mi sono mai interessato alla musica, ero uno sportivo amante del calcio. Un giorno, uscendo da scuola passai in un bar e sentì uscire da un jukebox She Loves You. Mi sono chiesto “Cos’è questa cosa?!” È stato un colpo di fulmine… Un colpo che negli anni 60 ha colpito quasi tutti: all’improvviso ogni ragazzo voleva una chitarra. Se parlate con un settantenne o giù di lì, di sicuro una chitarra l’ha avuta. Poi c’è chi, come me, in modo abbastanza casuale, è diventato un musicista professionista, senza esserselo mai immaginato.

Pensate che allora, tanto erano degli idoli i Beatles, si formavano i complessi senza nemmeno saper suonare lo strumento, ma semplicemente ci si trovava fra amici, come abbiamo fatto noi, e si stabilivano i ruoli per gioco; c’era chi faceva Paul, chi John, chi Ringo, ed in base a chi volevi essere iniziavi a suonare lo strumento corrispondente…

Questa ondata di musica, che allora si chiamava musica beat, ha fatto sì che appunto sorgessero una marea di band. E anche i locali avevano capito che se volevano prendere il pubblico giovane, dovevano far suonare questi ragazzi.

Pertanto c’era molto lavoro nei dancing, così si chiamavano i locali dove le band di musica ballabile si esibivano. Con il mio gruppo facevamo questo repertorio e suonavamo giovedì, sabato, domenica…la domenica per la verità sia pomeriggio che sera. Non c’erano ancora le discoteche. Diciamo quindi che già a 16 anni, con un anno di esperienza, facevo la professione di musicista.

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PG: Siamo molto curiosi riguardo le tue esperienze in studio. Com’era a quei tempi? Per il nostro pubblico, soprattutto per i più giovani, è un po’ difficile da capire ed immaginare, considerando che oggi si possono fare i dischi in casa…

C.B. : Facciamo un salto temporale in avanti… Dai 16 anni quando facevo musica beat ai 26 anni quando ho iniziato a lavorare in studio. Però prima vorrei solo fare un piccolo collegamento. Non ho iniziato a lavorare in studio perché ho bussato alla porta di una casa discografica dicendo “sono un chitarrista e voglio registrare per voi”. Ad un certo punto i padroni dei locali hanno visto che bastava mettere un disco e la gente ballava lo stesso. Ci fu un declino dei dancing, perché vennero soppiantati in poco tempo dalle discoteche e di conseguenza i gruppi musicali hanno cominciato ad essere sempre meno. Il lavoro diminuì a tal punto che avevo anche smesso di suonare professionalmente e mi ero messo a fare il mio mestiere di grafico, ambito nel quale mi ero diplomato. Ovviamente non ho smesso di suonare e, con altri due miei amici, ho messo in piedi una band per suonare musica tipo West Coast, gli America, Crosby, Stills and Nash e avevamo composto anche dei nostri brani, tra l’altro in inglese. Uno di questi amici, Max Meazza, conosceva dei produttori dell’epoca, i fratelli La Bionda.

Adesso faccio dei nomi che per voi non vogliono magari dire niente, ma allora era gente conosciuta nell’ambiente discografico. Questi fratelli ascoltano i nostri brani e si dicono interessati. “Li proponiamo alla Polygram, magari riusciamo a fare un LP”. Calcolate che la Polygram era la casa discografica di Jimi Hendrix, non era proprio una cosa da poco… Ci fanno fare questo LP e quindi andiamo in studio di registrazione per registrare i pezzi. 

I fratelli La Bionda, essendo produttori, lavoravano con diversi cantanti. Mi hanno sentito suonare sia l’elettrica che l’acustica sulle mie canzoni e mi hanno detto “Senti noi il mese prossimo dovremmo fare un disco per Bruno Lauzi. Verresti a fare le chitarre?”. Accettai e presi un mese di aspettativa al lavoro per fare le chitarre di Bruno Lauzi. Finito quel disco, mi proposero di fare un disco con Fabrizio De André, (Volume 8 con i brani di De Gregori): altra aspettativa al lavoro!

Claudio Bazzari in studio con Fabrizio De André, per gentile concessione di Claudio Bazzari

A un certo punto viene a conoscenza della mia presenza in studio un tizio che allora si chiamava “convocatore”, che era un personaggio che aveva a Milano l’elenco di tutti i musicisti. Non dobbiamo dimenticarci che Milano era il centro di tutta la discografia italiana. Tolta Roma che aveva la RCA, tutte le altre case discografiche erano qua, quindi tutte le produzioni dei dischi erano qua. E quindi ogni giorno c’era un disco da produrre; la casa discografica che voleva fare il disco all’artista tal dei tali chiamava questo “convocatore” per chiedere musicisti pronti e disponibili a lavorare. Entrando nella lista, fui contattato nel momento in cui altri chitarristi non erano disponibili e da qui è nato tutto. Sono andato bene una volta, la seconda, perché chiaramente non si poteva sbagliare, altrimenti in un attimo, se andavi male, eri fuori… E da lì è iniziato un lavoro impiegatizio in studio di registrazione; lavoravamo quasi tutti i giorni ed è per questo che ci chiamavamo turnisti! C’erano i turni di tre ore, dalle dieci all’una e dalle tre alle sei. Poi avevamo tariffe definite, avevamo un sindacato, se si sforava l’orario di mezz’ora si prendeva comunque l’ora piena perché era straordinario. E alla domenica…paga doppia!

PG: Che meraviglia! Sentirti raccontare queste cose è davvero molto bello ed interessante. Ci hai portato degli oggetti che hanno fatto la storia negli studi di registrazione…parlacene un po’! 

C.B.: Diciamo che se non avevi questi effetti rischiavi di non ottenere il lavoro! 

Ho portato una cosa che usavo prima dello studio di registrazione, quando ero ancora nel gruppo Beat. Il primo distorsore che ho usato, prodotto da Vox: si inseriva direttamente col jack nella chitarra. È degli anni ‘60, made in Italy (la Vox aveva la licenza di montare i suoi prodotti anche in Italia), il mio primo AC30 è uno di quelli montati dalla Eko in Italia. 

Quando si lavorava in studio in quegli anni bisognava intonarsi tutti ad orecchio, perché non c’era ancora l’accordatore.

Quindi c’erano situazioni magari con con molti strumenti e accordare a orecchio, sapete benissimo che non è semplice “Forse hai il La un po’ calante…” “no ma adesso è crescente”… Diciamo che a volte si faceva molta fatica a trovare la quadra. C’erano situazioni dove dicevamo “ragazzi ci vediamo domani perché non capisco più se sono intonato o no”. Ecco qui il primo accordatore che è uscito in commercio! Sembra un rilevatore di radiazioni; dovevi selezionare nota per nota e il gioco era fatto. L’ho comprato prima di fare una tournée di Celentano, fra il 1979 e 1980; abbiamo fatto un piccolo tour all’estero, in Germania e Svizzera, poi sono arrivate le date in Italia. C’era tutta l’orchestra, fiati compresi e io chiaramente avevo portato il mio nuovo accordatore; mentre controllavo l’intonazione della chitarra in camerino si avvicina un musicista che suonava i fiati e mi chiede “Cos’è?” e io “Un accordatore” e lui “Fammelo provare” Si mette lì davanti, fa una nota, un la a dir poco crescente e subito dice in dialetto milanese “Al va minga ben [non funziona]”. [ride]

Quest’altro oggetto mi ha evitato un sacco di problemi in studio di registrazione. Si tratta del Rockman, costruito da Tom Schultz il chitarrista dei Boston che era in realtà un ingegnere elettronico. Avevamo finalmente risolto, parlo dell’Italia, il problema di avere un suono distorto bello e in fretta in studio di registrazione. Con l’amplificatore e i microfoni si perdevano ore prima di avere un buon suono, invece con questo in diretta nel banco si otteneva un gran risultato in men che non si dica. L’ho usato ad esempio in Tarzan Boy, un brano che ancora adesso si sente in giro…

E da ultimo questo è un Phaser Electro-Harmonix che lavora sui toni non sull’intonazione della nota. Se non avevi questo pedale non eri un turnista serio.

PG: Mi riallaccio al tour con Celentano per chiederti con quali artisti ti sei esibito dal vivo.

C.B.: Di live ne ho fatti pochi… Celentano, Venditti e una cantante che penso che ormai sia dimenticata ed è un peccato perché era bravissima: Milva. Lei era famosissima all’estero e abbiamo fatto un sacco di tournée in Germania e Giappone.

Ho fatto pochi live perché si lavorava talmente tanto in studio che se tu andavi a fare i concerti perdevi dei mesi di lavoro e rischiavi di essere tagliato fuori. Chiaramente succedeva che, facendo il disco con un artista, quest’ultimo apprezzasse come suonavi e ti chiedeva se eri disponibile per il tour promozionale. Mi è successo con Edoardo Bennato quando abbiamo registrato Uffa Uffa e Sono Solo Canzonette.

Sinceramente per me era più comodo e sicuro il lavoro in studio; ero sposato e dovevo mantenere la famiglia, quindi preferivo stare vicino a casa piuttosto che fare mesi in giro per l’Italia.

PG: Fa sorridere pensare che fare il chitarrista fosse un lavoro sicuro…

C.B.: C’era il sindacato, avevamo un forte potere contrattuale poiché eravamo in grado, volendo, di paralizzare un intero settore. Per avere ad esempio l’aumento di 5 mila lire potevamo decidere di fermarci, magari proprio nel momento in cui bisognava registrare i dischi di Sanremo. Potevamo ottenere il giusto salario anche perchè non c’era dietro la coda di persone pronte a sostituirti per molto meno come accade oggi.

Claudio Bazzari in studio con Loredana Berté, per gentile concessione di Claudio Bazzari

PG: Probabilmente i musicisti professionisti erano molti meno rispetto ad oggi e il livello richiesto era molto alto…

C.B.: Beh calcola che si registrava tutti insieme dopo aver composto l’arrangiamento; quando arrivava il momento scattava il counter “1, 2, 3, 4” si accendeva la lucina rossa e si doveva suonare bene, essere precisi, anche perché se sbagliavi poi ti prendevi gli insulti dai colleghi!

PG: Abbiamo saputo che sei stato uno dei primi in Italia ad interessarsi alle grandi chitarre che oggi chiamiamo “vintage” ma che all’epoca erano semplicemente degli ottimi strumenti. Come nasce questo interesse e quali sono le chitarre più belle che hai posseduto?

C.B.: Negli anni 60 cercavamo quel tipo di chitarre, non perché volevamo fare un investimento, ma semplicemente perché per avere un certo tipo di suono quando non c’erano tutti questi aggeggi che abbiamo visto prima, la chitarra entrava dritta nell’amplificatore e quindi se volevi un suono distorto lo potevi ottenere solo con una Gibson Les Paul e un Vox o un Marshall; con una Fender in un amplificatore Fender, anche mettendo il volume a 10, il suono distorto era non era quello che veniva richiesto. Perché la Gibson Les Paul è stata la chitarra simbolo di quegli anni? Perché aveva l’humbucker ed era una solid body, quindi non dava problemi di feedback e ronzii vari. Calcolate che in Italia ne saranno arrivate pochissime all’inizio. So della mia, quella di Alberto Radius e quella di un altro chitarrista che poi ho comprato io perché lui decise di darsi alla musica classica. 

Ne ho avute due di Les Paul; la prima, che poi mi è stata rubata, l’ho pagata come una chitarra usata perché l’ho presa nel ’67 e quindi aveva solo 7 anni di vita; non era una chitarra da collezione, lo è diventata molto più tardi. Mi è sempre piaciuta anche la Fender Stratocaster però quella con la palettina piccola, non quelle con il palettone che uscirono dal 1968. Me ne sono comprata una del 65 che ho ancora adesso. 

Certe cose sono arrivate dopo; il collezionismo che sfocia in fanatismo, che se la chitarra ha la scritta spaghetti logo vale 2000 euro in più ad esempio, sono dinamiche che nessuno considerava all’epoca. Era solo una questione di ricerca del suono.

Dopo il furto della mia prima Les Paul ne comprai subito un’altra che ho poi venduto un po’ di anni fa. Ho acquistato molte chitarre, non certo ai prezzi attuali e molte le ho ancora oggi. Si sono indubbiamente rivelate un grande investimento. È successo qualche anno fa che avevo necessità di restaurare una baita in montagna; ho venduto tre chitarre e ho pagato l’intero lavoro…

PG: Claudio grazie per questo viaggio nel tempo, per queste testimonianze uniche. Ascoltarle da te che le hai vissute non è certo come leggerle sui libri o guardare un documentario su Youtube. Speriamo di averti di nuovo come nostro ospite!

C.B.: Senz’altro! Un saluto a tutti gli amici Planet Guitar!

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Matteo Bidoglia