Peter Green è stato uno dei più grandi chitarristi del secolo scorso, che negli anni Sessanta ha cambiato le coordinate del blues elettrico. Ha vissuto un’esistenza tormentata senza mai ricevere il giusto riscontro per le opere svolte, con una carriera fin dall’inizio folgorante, nei Bluesbreakers di John Mayall e poi come fondatore dei Fleetwood Mac, prima del lento declino fisico e psicologico. Proprio negli ultimi anni della sua vita si è sviluppata, seppur a distanza, un’intensa affinità con David Gilmour, un altro maestro della sei corde, che gli ha tributato un sentito omaggio.

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Il “doppio” tributo di Gilmour a Peter Green

Il concerto di celebrazione del 2020

Come abbiamo visto nella precedente puntata, David Gilmour è una rockstar illuminata e appassionata che negli ultimi anni di carriera sente sempre più il peso del suo ruolo. La beneficenza e il desiderio di avvicinarsi ai suoi eroi giovanili assumono così un’importanza rilevante. A metà 2019, preoccupato per il futuro della Terra, con un’asta record vende oltre un centinaio di sue chitarre storiche offrendo tutti i proventi in favore di ClientEarth; l’anno successivo si dedica invece all’omaggio a Peter Green, avvenuto alcuni mesi prima della sua scomparsa. Tuttavia già parecchio tempo addietro, nel 2007, durante un’intervista, Gilmour svela quale sia il guitar solo che avrebbe voluto scrivere.

Albatross!”, è la sua risposta senza esitazione, a evocare l’epopea dei primi dischi dei Fleetwood Mac e del suo frontman di allora. E nel novembre 2008, ospite del programma radiofonico di Jools Holland sulla BBC2, dopo aver parlato del suo Live in Gdańsk in via di pubblicazione, si unisce alla house band del noto presentatore per suonare quella canzone tanto amata.

Sebbene i Fleetwood Mac abbiano ottenuto un enorme successo commerciale dall’arrivo di Lindsey Buckingham e Stevie Nicks nel 1975, l’incarnazione iniziale della band con Peter Green ha lasciato un profondo impatto. I primi dischi con il chitarrista e cantante britannico sono stati fonte di ispirazione non solo per Gilmour, ma anche per altri artisti e band come Rolling Stones, Who, ZZ Top, Aerosmith, Metallica e Oasis.

Così quando il 25 febbraio 2020 il batterista Mick Fleetwood decide di organizzare uno spettacolo tributo in suo onore al London Palladium di certo non potevano mancare, fra i tanti, Billy Gibbons, Steven Tyler, Noel Gallagher, Pete Townshend, Kirk Hammett, Bill Wyman, John Mayall e, ovviamente, David Gilmour.

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La magia di Albatross, canzone senza tempo

“Albatross è una canzone bellissima, ma porta con sé anche un’enorme tristezza ad un ascolto più attento. Era Peter che si spingeva oltre il blues. Il peso del nostro successo lo perseguitava. Dopo tutto, era stato lui a crearlo, proprio quello che voleva evitare. Sapevo che il mantello era diventato troppo pesante da portare, l’albatros intorno al suo collo, se così si può dire. La responsabilità di tenere in volo l’uccello gigante sarebbe stata alla fine troppo grande per Peter, una storia ossessionante di per sé.” 

Mick Fleetwood, intervista per Genesis Publications

Lo strumentale Albatross, ispirato da The Rime of the Ancient Mariner, poema di Samuel Taylor Coleridge, segna un netto allontanamento dal blues convenzionale. Il motivo cattura immediatamente gli ascoltatori grazie alla sua melodia eterea, creata dall’incantevole lavoro di Green, ideatore del pezzo, all’opera con una Fender Stratocaster noleggiata appositamente per la sessione (tuttavia pare vi siano anche alcune sovraincisioni effettuate con la mitica Greeny) e suonata per mezzo di un amplificatore da 100W della Matamp.

Il ritmo pulsante del basso di John McVie, le armonie di Danny Kirwan, l’esotico rumore delle onde creato dai timpani di Mick Fleetwood usati sui piatti e i tamburi sono anch’essi determinanti nel donare un’atmosfera unica al brano. Sono suoni avvolgenti e umori contrastanti, come se vedendo la salvezza a un passo si fosse attanagliati dalla paura di lasciarla sfuggire. Un capolavoro che colpisce subito B.B. King quando i Fleetwood Mac lo eseguono durante le prove di un tour fatto insieme e che nel gennaio 1969 sale in vetta alla UK Singles Chart, diventando il loro primo successo. L’interpretazione di Gilmour è di una dolcezza e fluidità incredibili, ma non è l’unica sorpresa di quella notte magica.

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La rilevanza di quello show per Gilmour

Oltre ad Albatross, anche una sentita performance di Oh Well Pt. 2 figura nel disco uscito con il titolo Mick Fleetwood & Friends Celebrate the Music of Peter Green and the Early Years of Fleetwood Mac.

Fleetwood descrive con affetto e grande pathos la figura dell’amico, enfatizzando il valore del concerto a lui dedicato: “Peter è stato il mio grande mentore e mi dà una gioia immensa rendere omaggio al suo talento incredibile. È un onore condividere il palco con così tanti artisti che il mio compagno d’avventure ha saputo ispirare nel corso degli anni. Artisti che condividono il mio grande rispetto per questo straordinario musicista”. Partecipare a quella serata si rivela per David Gilmour un’emozione folgorante e un’esperienza incredibile, tuttavia manca ancora qualcosa per terminare definitivamente la sua opera di tributo. Serve un ulteriore tassello al fine di concludere un mosaico di rara finitezza, disegnato e creato per il suo idolo, eroe di altri tempi ed epoche, che merita di essere ricordato in eterno.

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Need Your Love So Bad e The Albatross Man

Questa sorprendente versione di Need Your Love So Bad nasce dalla scoperta di una traccia vocale della canzone, registrata da Green stesso a casa di sua madre, nel 1968, con un semplice registratore domestico. Il produttore Laurie Latham la utilizza e con il contributo di Gilmour (sia alla chitarra elettrica che all’acustica!) costruisce un nuovo paesaggio musicale per questo classico del blues di Little Willie John. E ora la parte commovente di tale bellissimo progetto: Peter riesce ad ascoltare ed approvare soddisfatto l’ottimo lavoro svolto appena prima di morire, serenamente nel sonno, il 25 luglio 2020. Need Your Love So Bad è una delle due composizioni che fanno parte del CD incluso nel nuovo, bellissimo tomo su Peter Green intitolato The Albatross Man. L’altra canzone è una struggente rilettura di Man of the World di Kirk Hammett, il quale utilizza la famosa Les Paul originale di Peter. 

E a proposito di libri, dopo aver parlato di omaggi e celebri canzoni, apriamo le pagine più importanti della vita di questo personaggio leggendario dall’animo assai tormentato, un uomo che ha lasciato un segno indelebile nella storia della musica.

L’incredibile parabola dell’esistenza di Peter Green

La passione per il blues e l’ispirazione ricevuta da due celebri chitarristi

Nato a Bethnal Green, quartiere operaio di Londra, il 29 ottobre 1946,  Peter Allen Greenbaum (il più giovane di quattro figli) si appassiona alla chitarra grazie al fratello maggiore Michael che gli insegna i primi accordi. Come i suoi coetanei di quella generazione divora i vinili d’importazione che arrivano dagli Stati Uniti, e si entusiasma per lo stile, l’estro e l’inventiva di giganti del calibro di Freddie King, Otis Rush, Muddy Waters, Eddie Boyd, Otis Spann, John Lee Hooker, Buddy Guy, rimanendo specialmente irretito dalle magie di B.B. King.

Inizia a suonare il basso professionalmente all’età di quindici anni, destreggiandosi in vari gruppi. Tuttavia l’amore per gli Shadows, in particolar modo per il loro frontman Hank Marvin, e le gesta di Eric Clapton con i Bluesbreakers lo riportano all’adorata sei corde. E nell’ottobre 1965 Green si ritrova proprio a sostituire Slowhand in quattro show di John Mayall e compagni, prima di entrare stabilmente nella formazione a partire dal luglio successivo.

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L’importanza di John Mayall

Lo stile di Peter è già ben definito e stupisce per unicità e delicatezza. Il Nostro ama il suono della chitarra puro, senza troppe distorsioni, e fa letteralmente cantare le note, come il suo maestro B.B. King. Sfoggia una padronanza negli assoli portentosa e ciò gli permette di brillare sul materiale dal vivo che spazia da So Many Roads e Double Trouble, cavalli di battaglia di Otis Rush, a r&b da dance hall come  Looking Back di Johnny “Guitar” Watson, fino alla languida Stormy Monday di T-Bone Walker.

Suonare lentamente e sentire ogni nota è il suo motto, la sua etica, e tali attitudini traspaiono in A Hard Road, dato alle stampe nel febbraio ’67. Il mondo della musica ha così la prima opportunità di ascoltare il nuovo “Dio della Chitarra”, che preferisce sonorità eteree e sensuali a raffiche di riff taglienti. Il merito è di Mayall, leader generoso e lungimirante, felice di accogliere nel migliore dei modi un altro grande virtuoso nella sua formazione.                                          

La piangente Someday After a While (You’ll Be Sorry), una The Stumble da brividi e la gloriosa The Supernatural, intrisa di riverbero, diventano dei classici istantanei, lasciando pochi dubbi ai fan riguardo al fatto che il nuovo arrivato fosse o non fosse un degno sostituto di Eric Clapton

I Bluesbreakers sembrano il luogo perfetto, il posto giusto al momento giusto, per l’ascesa del giovane artista. Ma anche quando A Hard Road raggiunge un discreto successo, sulla scia del fragore creato dal Beano Album e dello status di talent scout illuminato raggiunto dal buon John, Peter permane inquieto. Soprattutto nella dimensione live a lungo andare si sente imprigionato nei clichè, gli sembra di fare lo stesso concerto ogni sera, senza alcuna improvvisazione, senza alcun nuovo spunto. Inoltre comincia a percepire una certa lontananza dalla sua concezione di purezza del blues. E così, già nell’agosto 1967, giunge il momento della formazione di una band storica, che con una serie incredibile di eventi e vicissitudini è arrivata fino ai giorni nostri.                                                                                                                       

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I Fleetwood Mac

L’esordio

Dopo alcune esperienze live e l’incisione di un singolo, è il momento dell’omonimo debutto discografico. Forti di un contratto firmato con la Blue Horizon di Mike Vernon, i Fleetwood Mac pubblicano il loro primo album nel febbraio 1968. Il disco raggiunge la posizione n. 4 nella classifica del Regno Unito. Il batterista Mick Fleetwood, il bassista John McVie (sostituto del membro iniziale Bob Brunning) e il chitarrista-cantante Jeremy Spencer fanno parte del sodalizio.

Definito inizialmente, ed erroneamente, vicino per attitudini e sonorità ai Cream, lo storico quartetto è invece lontano dalla vena jazz e psichedelica di Baker, Bruce e Clapton. La dedizione al vero e profondo blues rimane incrollabile con composizioni intense di Green quali Merry Go Round, Long Grey Mare, I Loved Another Woman e The World Keep on Turning, veri gioiellini da custodire in uno scrigno prezioso, che palesano le sue doti vocali e di scrittura. Vi sono poi cover di standard eccelsi, da Robert Johnson e Elmore James. Notevoli sono anche le invenzioni di Spencer My Heart Beat Like a Hammer e Black Cold Night con una slide tonificante e soddisfacente sotto ogni punto di vista.

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Gloria e successo  

Un altro pezzo da novanta di quel frangente è il 45 giri Black Magic Woman (uscito il 29 marzo ’68), in seguito successo internazionale per i Santana. Scritto con in mente la sua fidanzata dell’epoca, il brano dimostra l’eccellente qualità di songwriter di Green, il quale, fortemente ispirato da Otis Rush e Howlin’ Wolf, inventa una melodia dal sapore latino che incatena alla sedia l’ascoltatore, dando una precisa direzione al blues elettrico moderno.

Mr Wonderful è, invece, il secondo lavoro dato alle stampe solo sei mesi dopo il primo, nell’agosto del 1968. Arricchito da una sezione di fiati e dal contributo alle tastiere di Christine Perfect, che proprio in quel periodo sposa John McVie, il disco si rivela una copia deludente dell’esordio. Solo Stop Messin’ Round vive di luce propria, tuttavia la dimensione live del gruppo non delude mai e consente di mantenere un livello eccelso anche al di fuori dell’Inghilterra.

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Il reclutamento del giovane chitarrista Danny Kirwan è peraltro catalizzatore di nuovi stimoli. Il buon Peter, sulla scia di Black Magic Woman si scrolla di dosso l’influenza prescrittiva dei pionieri del blues, “esorcizzata” nella gustosa cover di Need Your Love So Bad e nel maestoso Fleetwood Mac in Chicago, e prosegue nel rinnovare il genere ricorrendo maggiormente al sentimento piuttosto che soffermarsi solo su schemi e formule predefinite. Non solo una progressione in dodici battute: per lui il blues diventa una cosa emotiva che gli permette di comunicare quello che prova nel suo profondo. Così nasce la canzone più iconica, Albatross, uno strumentale da svenimento, ondeggiante e pulsante, da cui è cominciato il nostro racconto e l’incrocio con Gilmour.

I Fleetwood Mac nella formazione a cinque con Kirwan. © Pictorial Press Ltd / Alamy Foto Stock

Il 1969 oltre al notevole riscontro ottenuto da questa composizione regala la bellissima e sconvolgente Man of The World, impreziosita da un breve, ma lacerante assolo con la sua Gibson Les Paul del ’59, l’adorata Greeny. Arrivano anche una compilation importante, The Pious Bird of Good Omen, lo schizofrenico, potente folk rock Oh Well (nella cui seconda parte imbraccia una Ramirez!) prima del terzo disco, Then Play On, con all’interno un’altra perla, Rattlesnake Shake. E, come sempre, è il palcoscenico a far da eccezionale complemento all’arte dei Fleetwood Mac…

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Quell’insano desiderio di scomparire e il successivo oblio

La prima incarnazione del gruppo ha ormai toccato l’apice senza che il suo leader avesse mai goduto pienamente della situazione. Il successo e la fama non rappresentano per Peter Green il raggiungimento dell’obiettivo. Ne è peraltro tristemente spaventato. In fondo se il nome della band nasce dalla fusione dei cognomi della sezione ritmica (Mick Fleetwood e John McVie) è ovvio che definire sui generis il suo frontman sia un eufemismo. Alcune avvisaglie del “disturbo” di Green si notano nelle liriche di Love That Burns, “Ti prego, ora lasciami piangere nella mia stanza”, e nella già citata, struggente, Man of the World. “Vorrei solo non essere mai nato” sono parole pesanti quanto un macigno recitate da chi vorrebbe essere leggero come una farfalla. 

L’oneroso fardello del successo, l’insoddisfazione e la convinzione di avere il destino segnato aleggiano come un fantasma nella sua composizione finale, The Green Manalishi (With The Two-Prong Crown), con il suo spettrale tono di chitarra a indicare una situazione disperata, dalla quale non sembrano esserci vie d’uscita. La sensazione di essere in trappola e di non avere scampo lo conduce a perseverare il cammino nella cattiva strada della droga.

Dopo alcune date in America, tra cui le indimenticabili di Boston, a fine marzo 1970 avviene l’irreparabile: nel mentre di un tour europeo una disastrosa dose di LSD presa alla Highfisch-Kommune, una comune alternativa frequentata da centinaia di giovani, manda completamente in frantumi la già fragile mente di Green. In poco tempo abbandona la band (il suo ultimo concerto è datato 20 maggio, anche se torna per un breve tempo a suonare con i compagni nel ‘71 con lo pseudonimo di Peter Blue) e il mondo dello spettacolo, lasciando come canto del cigno una stralunata raccolta di strumentali intitolata appropriatamente The End of the Game, alcune fugaci collaborazioni e una veloce comparsata in Caldonia di B.B. King. 

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La fiammella di Peter Green non si spegne: gli ultimi decenni, sempre con la musica (e le chitarre) nel cuore 

Passano quasi nove anni prima di sentire ancora parlare di Peter Green, anche se, comunque, niente sarà più come prima. Apatia, malinconia e solitudine sono le parole chiave su cui si specchia quell’interminabile periodo di oblio.

Sembra quasi che all’ex Fleetwood Mac siano stati cancellati futuro e ricordi, costretto a correre senza una direzione per scappare da un mondo incendiato. Il passato è lontano, dimenticato, e il domani per lui è un giorno già vissuto, un panino appena morso, un qualcosa di già assaggiato che non vuole frequentare o magari non ha ancora il coraggio di bazzicare. Un poco di ardimento arriva nel 1979. Pur se come un leone in gabbia, ferito da continui ricoveri psichiatrici, il Nostro riesce a pubblicare In the Skies, accompagnato da grandi musicisti del calibro di Snowy White e Reg Isidore, e a comparire come session man/special guest nei lavori dei Fleetwood Mac (non accreditato ufficialmente in Brown Eyes, come già accaduto nel ’73 in Night Watch) e Mick Fleetwood.

Gli anni Ottanta portano altri quattro dischi piuttosto anonimi con pochi lampi, qualche progetto strampalato e un nuovo distacco dallo showbiz. L’ultima parentesi felice avviene a partire dal ’96 con il Peter Green Splinter Group, insieme a Nigel Watson, Cozy Powell e Neil Murray. Otto album e parecchie date live si susseguono fino all’abbandono di Green nel 2004. Tuttavia cinque anni dopo il chitarrista riprende a suonare dal vivo con una nuova band, un ultimo capitolo chiamato, senza troppo sforzo di fantasia, Peter Green and Friends

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Le storiche chitarre di Peter Green: dalla mitica “Greeny” alla Gretsch White Falcon 

Forse non tutti sanno che all’inizio della sua carriera, Peter Green utilizzava una Harmony Meteor, strumento a buon mercato e a corpo cavo. Greeny, la sua “magic guitar” da cui ricava un tono unico è invece una Gibson Les Paul del ’59, comprata da Selmer a Londra per suonare i primi concerti con John Mayall e i suoi Bluesbreakers. Tutto il periodo con il “Padrino del Blues” e i Fleetwood Mac è contraddistinto da questo modello iconico, la cui storia incredibile lo porterà poi nelle braccia di Gary Moore e, in seguito, di Kirk Hammett.

Gibson Kirk Hammett

Gibson Kirk Hammett “Greeny” LP Std.

Valutazione dei clienti:
(5)

Negli anni Novanta, Green suona una Fender Stratocaster degli anni Sessanta e una Gibson Howard Roberts Fusion III, utilizzando amplificatori Fender Blues DeVille e Vox AC30. Nell’ultimo periodo della carriera usa sovente una Gibson ES-165. In tutta la sua esistenza Green ha accumulato più di 150 strumenti, tra chitarre elettriche, acustiche e altri equipaggiamenti. Vengono venduti all’asta da Bonhams di Londra nel giugno 2023. Fra i “cimeli” ceduti sono da ricordare anche una Gretsch White Falcon semiacustica del 1968, una National Duolian Resonator del 1931 e una Fender Stratocaster USA Custom Shop del 1999.

Vox AC30 C2

Vox AC30 C2

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(140)

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L’incredibile patrimonio lasciato

Peter Green è stato un musicista straordinario, sensibile e maturo, fonte di ispirazione per tantissimi artisti. Se ne è andato via senza clamore, come suo solito, in una calda giornata di fine luglio del 2020, lasciando la sua arte meravigliosa sotto gli occhi di tutti. Le sue canzoni senza tempo hanno influenzato alcuni fra i gruppi più importanti del secolo scorso, autori di dischi imprescindibili per qualunque amante della bellezza e della chitarra. 

“È lì che facciamo finta di essere i Fleetwood Mac per qualche minuto”, racconta John Lennon a un DJ della radio londinese nel 1969, poco dopo l’uscita di Abbey Road. Ma non solo Beatles. Ci sarebbe stata Black Dog dei Led Zeppelin senza i riff martellanti di Oh Well? E come avrebbero percorso la loro strada verso la notorietà i Santana se non avessero inciso Black Magic Woman?

Gli esempi non finirebbero mai, basti pensare al rock epico e solenne assimilabile al proto-heavy metal di The Green Manalishi, pezzo diventato parte integrante del repertorio dei Judas Priest. Pochi possono vantarsi di un così ampio spettro di influenze date. Vengono in mente ancora le enigmatiche tracce di chitarra rivestite di eco di I Loved Another Woman, dove raramente Green aveva suonato in modo così duttile ed emotivo; stupiscono le note cristalline di Stone Crazy, in un’estemporanea collaborazione con Aynsley Dunbar, Jack Bruce e Rod Stewart.

Ed entusiasmano alcune gemme nascoste, presenti nel fantastico Live at the BBC, come le sorprendenti versioni di Sandy Mary e di Jumping at Shadows, scritta dall’amico Duster Bennett e diventata cavallo di battaglia dei Fleetwood Mac. Un brano che ha avuto un forte impatto su un altro grandissimo chitarrista legato indissolubilmente (non solo per Greeny!) a Peter Green: Gary Moore. E così un altro succulento episodio di “Crossroads” comincia a prender forma! 

Stay tuned

To be continued…

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Alessandro Vailati